domenica 29 luglio 2012


C'è un nonno che parla ad un nipotino:
"Se ti senti stanco, metti la schiena contro un albero,
incolla i talloni e la nuca al tronco, rivolto verso sud,
appiattisci i palmi delle mani sulla corteccia e resta più
che puoi, un'ora se ne hai la pazienza: guarito!
Sarai rigonfiato!"
"Rigonfiato di cosa?" risponde il bambino.
"Rigonfiato di vita, ragazzo! L'albero succhia la vita nella terra,
questa rimonta attraverso le sue radici ed il suo tronco;
la succhia anche dal cielo attraverso le foglie ed
essa scende attraverso i rami.
L'energia circola nei due sensi, capisci?
E tu sei li nel passaggio."



 Henri Vincenot


martedì 10 luglio 2012

Il colloquio di Monos e Una


Il colloquio di Monos e Una

Una: Rinato?

Monos: Sì, bellissima, amatissima Una, rinato. È questa la parola sul cui mistico significato ho così a lungo riflettuto, respingendo la spiegazione del clero, finché la morte stessa risolse per me il segreto.

Una: La morte!

Monos: Quanto stranamente, dolce Una, fai eco alle mie parole! Osservo anche una esitazione nei tuoi passi, una gioiosa inquietudine nei tuoi occhi. Sei confusa e oppressa dal mistero della Vita Eterna. Sì, era proprio della Morte che io parlavo, e quanto diversamente suona qui questa parola, che secondo gli antichi portava solo terrore nei cuori, guastando qualsiasi piacere!

Una: Ah! La Morte, lo spettro che sedeva in tutti i festini. Quante volte, Monos, ci siamo perduti in speculazioni sulla sua natura! Come agisce misteriosamente da freno dell‟umana felicità dicendole «Fino a tal segno e non più in là!». Quel nostro profondissimo reciproco amore, Monos mio, che bruciava nei nostri petti… come ci vantavamo inutilmente, sentendolo sbocciare felice per la prima volta, che la nostra gioia sarebbe divenuta più forte man mano che esso acquistava forza! Ahimè!… Man mano che si rafforza cresce nei nostri cuori anche la paura di quella triste ora che si affretterà a separarci per sempre! Il passare del tempo diventa penoso per l‟amore. L‟odio sarebbe stato in fondo più tollerabile.

Monos: Non parlare ora di questi argomenti dolorosi, cara Una… mia, mia per sempre!

Una: Il ricordo di passati dolori non è forse una gioia presente? Ho molto da dire sulle cose che sono state. Soprattutto brucio ora dal desiderio di conoscere quello che è accaduto nel tuo passaggio attraverso l‟oscura Valle e l‟Ombra.

Monos: Quando mai la mia radiosa Una chiederà invano qualcosa al suo Monos? Ti racconterò tutto, minutamente… da quale punto vuoi che inizi il mio racconto soprannaturale?

Una: Da quale punto?

Monos: L‟hai detto.

Una: Ti capisco, Monos. Entrambi abbiamo imparato che l‟uomo ricerca nella Morte la definizione di quanto è indefinibile. Non dirò, quindi, comincia dal momento della cessazione della vita… ma comincia da quel triste, tristissimo istante in cui, avendoti abbandonato la febbre, tu sei sprofondato in un torpore senza respiro e movimento e io ti ho chiuso le pallide palpebre con un gesto di amore disperato delle dita.

Monos: Innanzitutto, Una mia, una parola sulla condizione umana in quell‟epoca. Ricorderai che uno o due saggi tra i nostri antenati – saggi nei fatti e anche se non tali nella stima del mondo – avevano azzardato il dubbio circa la proprietà del termine «miglioramento» applicato al progresso della nostra civiltà. Ci sono stati periodi, in ciascuno dei cinque o sei secoli immediatamente precedenti la nostra dissoluzione, nei quali insorse qualche vigoroso intelletto per battersi coraggiosamente a favore di quei princìpi che ora appaiono verità assolutamente ovvie alle nostre mentalità non più condizionate… princìpi che avrebbero dovuto convincere la nostra razza a sottomettersi alle leggi della natura piuttosto che tentare di dominarla. A lunghi intervalli talune apparvero menti superiori che consideravano ogni progresso tecnologico come un regresso ai fini della vera utilità. Occasionalmente l‟intuizione poetica – quella forma di intelligenza che consideriamo ora più elevata di tutte, – in quanto quelle verità, che sono per noi della massima duratura importanza, possono essere comprese soltanto con questa analogia che parla in termini adatti alla sola immaginazione e non ha peso per la ragione non illuminata – occasionalmente tale intuizione poetica fece un passo avanti nell‟evoluzione dell‟idea vaga del filosofico e trovò nella parabola mistica che parla dell‟albero della conoscenza e del suo frutto proibito che reca la morte, la precisa allusione al fatto che la conoscenza non poteva essere raggiunta dall‟uomo nella condizione infantile in cui era la sua anima. Questi uomini, i poeti, vivendo e morendo in mezzo al disprezzo degli «utilitaristi» – dei rozzi pedanti che si arrogavano un titolo che solo i disprezzati avrebbero meritato -, proprio questi uomini, i poeti, meditarono con rimpianto ma con saggezza, sui tempi andati quando i nostri bisogni non erano più semplici di quanto intense fossero le nostre gioie, tempi nei quali gioia era una parola sconosciuta, tanto era solenne ma dimessa la felicità – santi, augusti, felici tempi, quando i fiumi azzurri scorrevano senza argini, tra colline non scavate, entro sconfinate foreste primeve, solitarie, odorose, inesplorate.
Eppure queste nobili eccezioni alla generale ignoranza non servirono ad altro, combattendola, che a rinforzarla. Ahimè! Eravamo caduti nel più infausto tra tutti gli infausti nostri giorni! Il grande «movimento» – era questo il termine del gergo in uso -avanzava: una morbosa confusione morale e fisica. L‟Arte – le Arti – raggiunsero valori supremi, e, una volta salite sul trono, strinsero catene intorno all‟intelletto che le aveva portate al potere. L‟uomo, che non poteva ignorare la grandezza della Natura, si tuffò in una sorta di infantile esultanza per avere acquisito un crescente predominio sui suoi elementi. Perfino quando volle nella sua fantasia avvicinare Dio, cadde preda di una infantile stupidità. Come poteva prevedersi fin dall‟origine del suo disordine mentale, si ammalò di sistemi e di astrazioni, si avvolse sempre più in genericità. Tra le altre idee strane guadagnò terreno quella dell‟uguaglianza universale; contro l‟analogia e Dio – a dispetto della possente voce ammonitrice delle leggi della gradazione che così visibilmente permea tutte le cose in Terra ed in Cielo – furono fatti insensati tentativi per attuare una Democrazia prevalente su tutto. Anche questo male germogliò dal male principale: la conoscenza. L‟uomo non poteva conoscere e soccombere. Nel frattempo sorsero in gran numero immense città fumose; le verdi foglie caddero per il soffio bruciante delle fornaci. La bella faccia della Natura fu deformata come per la devastazione di una repellente malattia. Medita, mia dolce Una, perfino il nostro addormentato senso del forzato, dell‟eccessivo, avrebbe potuto fermarci a quel punto. Ora ci accorgiamo che avevamo provocato la nostra distruzione con il pervertimento del gusto, o più ancora nel cieco abbandono della sua cultura nelle scuole. In realtà in una così grave crisi solo il gusto – cioè la facoltà di tenere una posizione intermedia tra il puro intelletto e il senso morale, che non potrebbe mai essere impunemente trascurato -, il gusto solo, ripeto, era ciò che poteva riportarci gradualmente alla Bellezza, alla Natura, alla Vita. Rimpianto per il puro spirito contemplativo, per la grandiosa intuizione di Platone! Rimpianto per la μονσιϰή che egli giustamente riteneva una educazione del tutto sufficiente per T‟anima! Rimpianto per lui e per questa! – perché entrambi erano disperatamente necessari quando vennero entrambi completamente dimenticati e disprezzati 7.
Pascal, un filosofo che noi due amiamo, ha detto – e quanto è vero! – «que tout notre raisonnement se réduit à céder au sentiment» 8; ed è possibile che, se il tempo lo avesse consentito, il sentimento del naturale avrebbe ripreso il suo antico ascendente sulla fredda razionalità matematica delle accademie. Ma questo non si è verificato. Influenzata dalla intemperanza di una prematura conoscenza, la vecchiezza del mondo crebbe. Questo la massa degli uomini non vide, oppure, vivendo con cupidigia ma senza felicità, mostrò di non vedere. Quanto a me, al contrario, le cronache del mondo mi avevano insegnato che le più grandi rovine sono il prezzo della più raffinata civiltà. Avevo avuto il presagio del nostro Destino, dal paragone con la semplice, paziente Cina, con l‟Assiria culla dell‟architettura, con l‟Egitto astrologo, con la Nubia, più scaltra degli altri, turbolenta madre di tutte le Arti. Nella storia9 di queste regioni trovai una illuminazione sul futuro. Le singole artificiosità di queste ultime tre erano malanni locali della terra e alla loro caduta abbiamo visto applicare rimedi locali; ma per l‟infetto mondo nella sua globalità non prevedevo rigenerazione se non attraverso la morte. Perché l‟uomo attuale, come razza, non si estinguesse, capii che doveva «rinascere».
E fu così, mia carissima e bellissima, che rivestimmo, ogni giorno, i nostri spiriti di sogni. Fu così che, al crepuscolo, discutemmo dei giorni avvenire, quando la superficie della terra, sfregiata dall‟Arte, avendo subito quella purificazione10 che sola poteva cancellare le geometriche oscenità, si rivestirà di nuovo di verde, di dolci declivi, di ridenti acque da Paradiso terrestre, e tornerà ad essere una degna dimora per l‟uomo: – per l‟uomo purgato dalla Morte – per l‟uomo al cui intelletto, alfine liberato, non porterà più veleno la conoscenza, per l‟uomo redento, rigenerato, felice e infine immortale, seppure sempre materiale.

Una: Ricordo bene queste conversazioni, caro Monos; ma il momento della catarsi nel fuoco non era così a portata di mano come noi credevamo e la corruzione cui tu hai accennato, lasciava supporre. L‟uomo viveva, moriva individualmente. Tu stesso
ti ammalasti e passasti nella tomba e là ti ha presto seguito la tua fedele Una. E sebbene il secolo or ora trascorso, e la cui conclusione ci riporta ancora una volta insieme, non abbia tormentato i nostri sensi assopiti, con l‟impazienza per la sua lunga durata, tuttavia, mio caro Monos, è stato pur sempre un secolo. Monos: Dì piuttosto un punto nell‟infinità del tempo. È fuori dubbio che io sono morto mentre la terra era sulla via della senescenza. Con il cuore sconvolto dall‟ansia generata dal disordine e dalla decadenza generale, fui travolto da una violenta febbre. Dopo pochi giorni di sofferenza e molti altri di sogni deliranti pieni di estasi, le cui manifestazioni esteriori tu scambiasti erroneamente per dolore ed io ero imponente a disingannarti -, dopo alcuni giorni caddi, come tu hai detto, preda di uno stato di torpore senza respiro né movimento, e questo fu definito Morte, da quelli che erano intorno a me.
Le parole sono cose vaghe. Il mio stato non mi impediva di sentire. Mi sembrò non molto dissimile dallo stato di estrema quiete di chi, avendo dormito a lungo e profondamente, disteso immobile e completamente prostrato in un meriggio di mezza estate, comincia lentamente a riprendere conoscenza semplicemente perché ha dormito a sufficienza e senza essere svegliato da interventi esterni.
Non respiravo più, il polso era immobile, il cuore non batteva più. La volontà non mi aveva abbandonato, ma era senza potere. I sensi erano insolitamente attivi, sebbene in modo eccentrico -assumendo a caso ciascuno di essi la funzione di un altro. Il gusto e l‟olfatto erano inestricabilmente confusi, trasformati in una sensazione unica anormale e intensa. L‟acqua di rose con la quale avevi teneramente inumidito fino all‟ultimo le mie labbra, suscitava in me dolci immagini di fiori – fantastici fiori, molto più gradevoli di qualsiasi altro sulla vecchia terra ed esemplari dei quali fioriscono ora qui intorno a noi. Le palpebre, trasparenti ed esangui, non impedivano interamente la visione. Poiché la volontà era assente, gli occhi non potevano roteare nelle orbite, ma potevo vedere più o meno distintamente tutti gli oggetti compresi nel mio campo visivo. La luce che cadeva sull‟esterno della retina o entro la cornea dell‟occhio produceva un effetto meno vivido di quella che colpiva la fronte o la superficie anteriore. Tuttavia questo effetto era nel primo caso così anomalo che lo apprezzavo solo come suono – suono dolce o stridulo a seconda che gli oggetti mi si presentassero di lato, in piena luce o in ombra, arrotondati o spigolosi. L‟udito al tempo stesso, sebbene eccitato a diversi livelli, non funzionava in modo irregolare, registrando suoni reali con acutissima precisione non meno che sensibilità. Il tatto aveva subito una modificazione ancora più particolare. Le sollecitazioni erano percepite con ritardo, ma tenacemente ritenute, e causavano sempre il più intenso piacere fisico. Così la pressione delle tue dolci dita sulle mie palpebre, da principio registrata solo attraverso la vista, alla fine, molto dopo che era cessata, riempì tutto il mio essere di un indicibile piacere sensuale. Dico proprio un piacere sensuale. Tutte le mie percezioni erano puramente sensuali. I materiali che pervenivano al cervello passivo attraverso i sensi non venivano trasformati in forme dall‟intelletto ormai estinto. Il dolore era presente in lieve misura; il piacere era molto; ma pene o piaceri morali non esistevano! Così i tuoi disperati singhiozzi fluttuavano nelle mie orecchie con tutte le loro tormentose cadenze e ogni variazione del tono triste veniva adeguatamente registrata; ma essi erano solo delicati suoni musicali, niente di più. Non portavano alla ragione estinta alcuna eco del dolore da cui erano generati, mentre le copiose, insistenti lacrime che mi cadevano sul viso, parlando agli astanti di un cuore spezzato, provocavano ad ogni fibra del mio corpo soltanto estasi. Questa in verità, era la Morte, di cui i presenti parlavano con reverenza, sospirando e tu, mia dolce Una, gemendo con altri lamenti.
Mi abbigliavano per la bara, tre o quattro sagome scure, che svolazzavano qua e là affaccendate. Quando attraversavano la linea diretta della mia vista, mi colpivano come forme; ma non appena si spostavano sul mio fianco le loro immagini si imprimevano in me con l‟idea di grida, gemiti ed altre angosciose espressioni di terrore, di orrore, di paura. Tu sola biancovestita ti muovevi in ogni direzione intorno a me come una musica.
Il giorno svaniva, le sue luci scolorivano, mi sentivo preda di un vago disagio, una angoscia come quella che sente il dormiente quando tristi reali suoni colpiscono continuamente il suo udito -bassi, lontani rintocchi di campana, solenni, a lunghi intervalli regolari, confusi con melanconici sogni.
Arrivò la notte, e con le sue ombre, un pesante sconforto che mi opprimeva le membra con un oscuro peso palpabile. Avvertivo anche un suono lamentoso, non dissimile dall‟eco lontano della risacca, ma più continuo, un suono cominciato al crepuscolo e cresciuto in intensità con l‟oscurità. Improvvisamente furono portate delle luci nella stanza e quell‟eco fu subito interrotta da ineguali scoppi di un suono simile meno triste, più confuso.
La pesante oppressione era in larga misura alleviata e, proveniente da ciascuna lampada (ce ne erano molte), fluì ininterrotta nelle mie orecchie una nota monotona, melodiosa. Quando tu, Una mia cara, ti sei avvicinata al letto sul quale giacevo disteso e ti sei seduta gentilmente al mio fianco, respirando profumo dalle dolci labbra premute sulla mia fronte, mi è sorto tremulo nel petto, mescolato alle sensazioni fisiche dovute alle circostanze, qualcosa di simile ad un sentimento vero e proprio – un sentimento che, apprezzato solo in parte, solo in parte rispondeva al tuo grande amore ed al tuo dolore. Ma questo sentimento non mise radici nel cuore che non batteva più; appariva piuttosto come un‟ombra che una realtà e rapidamente mutò dapprima in una sorta di quiete e poi in un piacere tutto sensuale, come prima.
Ora, dal disfacimento e dal caos dei normali sensi, sembrava essere nato dentro di me un sesto senso, assolutamente perfetto. Nell‟esercitarlo provai un piacere sfrenato – ma un piacere ancora fisico, in quanto l‟intelligenza non vi aveva parte. La mobilità della mia struttura animale era completamente cessata. Non un muscolo si muoveva, non un nervo vibrava, non un‟arteria pulsava. Sembrava che dentro il mio cervello fosse spuntato qualcosa che nessuna parola è in grado di spiegare, anche sommariamente, a una normale intelligenza umana. Lasciamela definire pulsazione pendolare mentale. Era la personalizzazione morale dell‟idea astratta che l‟uomo ha del Tempo. Dall‟assoluta uniformazione di questo movimento – o quello che era – erano stati regolati gli stessi cicli delle orbite celesti. Con il suo aiuto misurai le irregolarità della pendola sul camino e degli orologi dei presenti. Il loro ticchettio mi arrivava ben distinto alle orecchie. Le leggerissime deviazioni dai valori giusti – peraltro tali deviazioni erano generali – mi ferirono proprio come le violazioni della verità astratta feriscono sulla terra, il senso morale. Sebbene nella stanza non vi fossero due misuratori del tempo in grado di battere all‟unisono i secondi, – non ebbi difficoltà nel tenere a mente i toni ed i rispettivi errori di tempo di ciascuno. E questa acuta, autonoma, perfetta sensibilità della durata -questa sensibilità esistente (nessun uomo può essere in grado di concepire che esista) indipendentemente da qualsiasi successione di eventi – questa idea – questo sesto senso, che si leva dalle ceneri del corpo, fu il primo evidente, sicuro passo dell‟anima senza tempo verso la soglia dell‟Eternità temporale.
Era mezzanotte e tu sedevi ancora al mio fianco. Tutti gli altri erano usciti dalla stanza della Morte. Mi avevano deposto nella bara. Le lampade ardevano tremule, me ne accorgevo dall‟oscillazione del monotono suono che me le rappresentava.
A un certo punto le oscillazioni diminuirono in chiarezza e volume, fino a cessare totalmente. Svanì il profumo nelle mie nari ci, nessuna forma colpì più la mia vista. L‟oppressione dell‟oscurità si insinuò nel mio petto, il mio corpo fu percorso da un fremito come una scossa elettrica, seguita dalla totale perdita dell‟idea di contatto. Tutto quello che l‟uomo definisce senso si confuse nella sola consapevolezza di entità e nella persistente sensazione di durata. Il corpo mortale era stato alla fine colpito dalla mano della Dissoluzione distruttrice.
Eppure non tutte le capacità sensoriali erano scomparse, perché la coscienza e sensibilità residue fornivano alcune delle loro funzioni con una sorta di intuizione letargica.
Avvertivo il terribile cambiamento in atto nella carne e, come colui che sognando sente talvolta la presenza corporea di qualcuno chino sopra di lui, così, mia dolce Una, sentivo confusamente che tu sedevi ancora al mio fianco. Così anche quando venne il mattino del secondo giorno, ebbi ancora coscienza di quei movimenti che ti allontanarono dal mio fianco, che mi chiusero nella bara, mi deposero sul feretro, mi portarono alla tomba e mi calarono dentro di essa, mi coprirono di pesanti zolle e che mi lasciarono così nel buio e nel disfacimento, al triste e solenne sonno eterno con il verme.
Ed ivi, nella casa-prigione che aveva ben pochi segreti da rilevare, trascorsero giorni e settimane e mesi. L‟anima controllava accuratamente ogni secondo che passava e senza sforzo teneva conto di questo fluire del tempo – senza sforzo e senza scopo.
Trascorse un anno. La consapevolezza di essere era diventata di ora in ora più vaga, quella di località ne aveva, in larga misura, usurpata la posizione. L‟idea di entità cominciava ad essere sostituita da quella di luogo. Lo stretto spazio che serrava da presso quello che era stato il corpo, stava ora diventando il corpo stesso. Alla fine, come spesso accade ai dormienti (la Morte viene rappresentata soltanto col sonno ed il suo mondo) – alla fine, come talvolta accade sulla terra a chi immerso in un sonno profondo e colpito da una luce improvvisa, sobbalza in una sorta di dormiveglia, che lo lascia ancora in parte preda di sogni – così a me, ancora strettamente serrato nelle braccia dell‟Ombra, arrivò quella luce che sola poteva avere il potere di scuotermi – la luce dell‟Amore eterno. Degli uomini armeggiarono intorno alla tomba nella quale giacevo al buio. Rimossero la terra che mi ricopriva e sulle mie ossa devastate calarono la bara di Una.
E ora tutto fu di nuovo vuoto. Quella luce nebulosa era stata spenta. Il debole fremito si era smorzato nella quiete. Passarono molti lustri, la polvere ritornò polvere. Il verme non aveva più nulla di cui cibarsi. La sensazione di essere alla fine sparì completamente ed al suo posto – al posto di tutte le cose – imperiosi ed eterni regnarono sovrani il Luogo ed il Tempo. Per ciò che non era, che non aveva forma, per ciò che non aveva pensiero, non aveva sensibilità, per ciò che non aveva anima e in cui la materia non aveva parte, per tutti questi nulla, e nondimeno per questa immortalità, la tomba era ancora dimora e compagne erano le ore distruggitrici. 


lunedì 9 luglio 2012


A me, se la ricchezza fluirà via, nulla porterà via con sé, se non se stessa; tu resterai stupefatto e ti sembrerà di essere stato lasciato senza te stesso, se quella si sarà allontanata da te; presso di me la ricchezza ha un certo posto, presso di te il più importante; infine, la ricchezza è mia, tu sei della ricchezza



Lucio Anneo Seneca

lunedì 18 gennaio 2010

Intro

Sì sì, prima o poi scriverò qualcosa di sensato (o qualcosa e basta) su questo blog.
Ma ... quando?